sul fiume Xingu
Un vecchio Sciamano degli indios Kayapò
Il momento in cui gli uomini della
V Compagnia, guidata da padre Pansa,
ritrovano padre Schouster a Stanleyville
( oggi Lubumbashi, nel centro del Congo).
E' il novembre 1964.
Schouster è l'unicosopravvissuto dei religiosi
presenti in città: gli altri 37 vengono ritrovati
sgozzati e gettati in una fossa comune.
Ferito ad una spalla, si è salvato perchè
creduto morto: la barba lunga ha nascosto la sua gola.
Padre Angelo a Sanleyville,nel novembre 1964.
A suainsaputa gli viene scattataquesta foto,
che finirà poipubblicata su Paris Match
procurandogli molti guai:
verrà richiamato a Roma per spiegare
il perchè del mitra in mano
Padre Angelo Pansa, in viaggiosu una piroga
lungo il fiume Curuà
quando era alla guida della V Compagnia
Agli estremi confini
IL MISSIONARIO DELL’OCA SELVAGGIA
di Luciano Scalettari
Qualcuno lo definisce una "pellaccia". Anche perché è sfuggito alla morte in diverse occasioni. Pochi sanno però che padre Angelo Pansa, negli anni ’60, si ritrovò in Congo alla guida di una compagnia di soldati di ventura. Obiettivo: liberare i religiosi ostaggio della guerriglia "mulelista".
(Il progetto "Amazzonia-Foresta viva" è finanziato da un gruppo di imprese del nord Italia, attraverso la onlus chiamata "Bioforest". Le imprese sono la Valcucine e l’Elettrolux di Pordenone, la Same di Treviglio, la Foppapedretti e l’Asm di Brescia. Bioforest, oltre che in Brasile, finanzia progetti di riforestazione in Equador. Inoltre sta realizzando un bioparco vicino a Pordenone, e attività di sensibilizzazione nelle scuole friulane.
Tra il 1964 e il 1967 il saveriano si dedicò al salvataggio di quasi 3 mila religiosi rimasti ostaggio dei ribelli mulelisti, durante la rivoluzione dei Simba.)
«I tuoi superiori hanno indovinato. Prima, dove andavi, piantavi grane. Adesso pianti alberi». Così dice spesso il vescovo di Paranatinga, Mato Grosso, a padre Angelo Pansa: «Mi prende in giro, bonariamente, perché conosce la mia storia. E in effetti, sì, devo ammettere che ho un passato un po’ particolare». Gli eufemismi si sprecano. "Piantagrane", riferito a padre Angelo Pansa, significa che per tre volte la congregazione dei saveriani, a cui appartiene, l’ha dovuto trasferire per salvargli la vita, vietandogli di rimettere piede nella missione dove operava. "Passato un po’ particolare" significa che il 5 novembre 1966 si trovava davanti a un plotone di esecuzione dei ribelli mulelisti congolesi, durante la rivoluzione dei Simba; nel 1985 stava nascosto nella foresta amazzonica lungo il fiume Xingù, mentre motovedette e aerei di una compagnia mineraria americana gli davano la caccia; nel 1997 lasciava in fretta e furia la città di Abaitetuba perché un grosso fuoristrada con 5 sicari a bordo girava per la città, per scovarlo e ucciderlo.
Da cinque anni padre Angelo è missionario nella prelatura di Paranatinga, in Brasile, dove, appunto, pianta alberi lavorando gomito a gomito con gruppi di coloni "sem terra", con qualche fazendero, e soprattutto con gli indios Xavante, Tapirapé e Bakairì. Mentre tutto intorno tagliano e bruciano pezzi di foresta equatoriale, polmone vivo del mondo, lui porta avanti il suo progetto: "Amazzonia-Foresta viva", che ha l’obiettivo di rimboschire aree che hanno già subìto in passato la stessa furia devastatrice.
Padre Angelo Pansa ha 72 anni, ma ne dimostra come minimo una decina in meno. Bergamasco "doc" – è originario di Mozzo, a pochi chilometri da Dalmine – ha alle spalle 47 anni di sacerdozio e altrettanti di missione, ed è entrato in seminario 60 anni fa. Parla piuttosto bene 7 lingue, e con altre quattro – come dice lui – «si arrabatta». Macina ogni mese centinaia di chilometri nelle sgangherate piste amazzoniche, dorme in macchina o in qualche capanna di fortuna nei villaggi indigeni, mangia e beve quello che trova. Forse per questo ha la pelle dura come cuoio e cotta dal sole, mantiene un fisico asciutto, e il suo volto è scavato da profonde rughe.
Il racconto della sua storia di missionario dura molte ore. Ma in un solo momento la sua voce sembra incrinarsi per la commozione, quando ricorda i suoi quattro confratelli trucidati in Congo, che non è riuscito a salvare, e l’incontro con la madre di uno di loro: «Mi disse: "Caro Angelo, ne hai salvati tanti, di religiosi, ma mio figlio l’hai condannato a morte". Che si può dire a una madre che ha perduto il figlio in quel modo? Ci si può giustificare dicendo che in quel momento mi era stato proibito di continuare le spedizioni per salvare i missionari tenuti in ostaggio? No, di fronte a quel dolore terribile si può solo tacere. E il dubbio te lo porti in cuore per sempre: dovevo disobbedire e andare avanti lo stesso?». Torniamo un passo indietro. Padre Angelo viene ordinato prete nel 1956 a Piacenza. I saveriani lo destinano al Congo belga, il Paese che presto cambierà nome in Zaire. Stanno per inviare là il primo gruppo di sei missionari. Angelo e un confratello faranno da apripista. È il 1958. Il gruppetto di giovani saveriani fa appena in tempo a insediarsi nel Congo orientale e ad aprire le prime missioni.
Il Paese diventa indipendente il primo ottobre 1960. E subito iniziano le lotte per il controllo del Paese, le insurrezioni, le repressioni militari. Nel 1964, inizia il capitolo più sanguinoso del neonato Congo: scoppia la rivoluzione dei Simba, così si facevano chiamare i seguaci di Mulele, che mette a ferro e fuoco tutto l’Est per altri tre anni.
«Oggi è un po’ diverso», racconta padre Angelo, «ma all’epoca i ribelli non distinguevano tra missionari, civili e mercenari. Eri bianco e basta. E l’odio verso gli ex colonialisti era molto forte. Così, appena divampata la guerra civile, i Simba presero in ostaggio tutti i religiosi presenti sul territorio. Erano quasi 3 mila. Io ero a Muenga, nella regione del Kivu, fuori dall’area occupata dai ribelli. Ma i miei confratelli erano rimasti bloccati nelle missioni dell’interno, a Nakiliza, Fizi e Baraka».
Padre Angelo non perde tempo. Parte, da solo, entra nel territorio dei ribelli, che gli concedono di portare fuori tutti i religiosi. Il vescovo si oppone, pensa che la situazione si normalizzerà, non vuole abbandonare la gente. «Purtroppo la sua previsione fu sbagliata», dice il missionario. «Me ne uscii solo con padre Pirani, perché aveva il brevetto di pilota come me e se i ribelli l’avessero scoperto l’avrebbero ammazzato subito. Capii subito che bisognava aggredire la situazione, senza lasciarsi mai intimorire. Tornando indietro, ai militari dei posti di blocco, dicevo: "Guardate che torno. E non voglio ricominciare a discutere. Non avete diritto di trattenere i religiosi. O me li consegnate, o li porterò via con la forza"».
Era l’inizio di giugno 1964. Persa quell’opportunità di fuga, i religiosi rimarranno in ostaggio per due anni e mezzo. Alcuni di loro non usciranno mai dal Congo. «All’epoca non c’erano satellitari né radio», continua. «Non avevamo alcuna notizia, se non quelle che arrivavano passando di voce in voce. Sapevamo che qualcuno era già stato ucciso».
Rientrato a Bukavu, il vescovo locale autorizza padre Angelo a tornare fra i ribelli per tirare fuori preti e suore. Nel frattempo Mobutu, che è ancora capo di stato maggiore dell’esercito (diventerà presidente solo nel 1965, con un colpo di Stato), prepara la controffensiva. «Doveva a ogni costo riconquistare Uvira», dice padre Angelo, «perché è il porto che serve tutta la regione. Lo avrebbe fatto col sistema americano: bombardamento a tappeto e poi avanzata delle truppe. Sapevo che, al cadere delle prime bombe, gli ostaggi sarebbero stati tutti eliminati. Andai da lui, a Kinshasa. Gli chiesi di darmi un gruppo di uomini e di permettermi di precedere l’offensiva militare, in modo da liberare gli ostaggi con un colpo di mano prima dell’arrivo dell’esercito. Per tutta risposta mi fece colonnello e mise ai miei ordini 45 mercenari. Si formò la V Compagnia. Fra quegli uomini c’era anche Ronald Biggs, esperto in esplosivi. Quello che nel 1963 aveva fatto la grande rapina al treno postale in Scozia. All’epoca non lo sapevo ma era latitante. Nel suo campo era eccezionale: quando avevamo bisogno di far atterrare gli elicotteri per portare via i missionari, in un colpo solo creava una radura».
L’operazione ideata dal religioso funziona. Mentre i ribelli si apprestano ad attaccare la città di Bukavu, l’esercito di Mobutu contrattacca e spezza la colonna nemica in avanzata. Il manipolo del saveriano precede i governativi e giocando sulla velocità libera i 30 religiosi di Uvira e altri sei nei paesi vicini.
Tornato a Bukavu, però, padre Angelo trova l’amara sorpresa: è arrivato dalla casa madre dei saveriani l’ordine perentorio di fermarsi, "in virtù di santa obbedienza". Stava per ripartire per liberare quegli ultimi sei saveriani. La missione è annullata. Padre Angelo torna in Italia per dare spiegazioni. Tuttavia, rientrato a Kinshasa, la capitale congolese, viene mandato a chiamare da Mobutu e dal Nunzio. Il primo gli fa gran complimenti, perché da quel primo successo militare è cominciata la rivincita sui Simba che soffocherà la rivolta; il secondo gli dice chiaro e tondo che l’ordine del superiore saveriano può essere ignorato, perché il suo, in quanto rappresentante del Papa, è superiore. Il Nunzio pone una sola condizione: «Sappi che, se ti prendono, io l’autorizzazione negherò di avertela data».
Padre Pansa di condizioni ne pone molte: di scegliersi gli uomini, di avere pieni poteri, di non dover sottostare a ordini di chicchessia, di aver pieno appoggio logistico e militare. «Iniziò un lavoro massacrante. Andai a stanare tutti i religiosi che riuscivo a raggiungere, e uno a uno li portai in salvo. Liberai una buona parte di quei 3 mila religiosi, ma ben 217 furono trucidati. Per due anni e mezzo la missione del "colonnello Angelo Pansa" fu solo questa. «Non ho mai sparato», precisa, «ma certo non si andava in gita. Gli scontri a fuoco tra mercenari e ribelli erano frequenti. Parecchi dei miei uomini furono uccisi. Tra i ribelli molti di più. E non è andata sempre bene: a Stanleyville (l’odierna Lumumbashi, ndr) siamo arrivati troppo tardi. Abbiamo trovato solo la fossa comune, con 37 cadaveri dentro. È davanti a quella tragica immagine che qualcuno a mia insaputa mi ha scattato una foto col mitra in spalla».
Quella foto finisce, chissà come, su Paris Match. Padre Angelo viene riconosciuto e convocato immediatamente a Roma. «Ho detto ai miei superiori di guardare bene cosa c’era oltre quel mitra, di osservare quei religiosi con le gole tagliate. E ho aggiunto: "Ci sono ancora 9 religiosi da salvare. Se posso farlo da prete, bene, se no lo farò lo stesso"». Padre Pansa lo farà da prete. Questa volta gli dicono di andare avanti. «Alla fine», spiega, «mi restavano gli ultimi due. Erano miei confratelli, bloccati da oltre due anni a Nakiliza. I mercenari ormai erano fuori controllo, non mi fidavo più nemmeno dei miei. Così andai da solo. Mi feci catturare dai ribelli e spiegai loro che i mercenari stavano per arrivare. Se avessero ucciso i due missionari, Nakiliza sarebbe stata rasa al suolo, di loro non se ne sarebbe salvato uno. Era il 5 novembre 1966. Per tutta risposta mi misero al muro, e rimasi tutto un pomeriggio col plotone d’esecuzione schierato. Mi ripetevano: "Girati che ti fuciliamo". E io rispondevo: "No, voglio guardare in faccia il primo che spara. Poi costui dovrà fare i conti con il mio spirito". Giocai sulla loro paura degli spiriti, e funzionò. Durante la notte riuscii a fuggire. Poi, rintracciati i due missionari, li portai in salvo».
Padre Angelo finisce, così, la sua missione. In Italia gli viene detto che deve scordarsi di tornare in Congo. Anche perché nel frattempo, nel giugno 1967, un gruppo di mercenari tenta un golpe ai danni di Mobutu. Tra i congiurati ci sono anche alcuni degli uomini di Pansa, e il dittatore congolese lo sospetta di aver fatto parte del complotto. Mobutu mette sulla testa del missionario la taglia di 12 milioni di franchi belgi. Nell’ottobre dello stesso anno padre Angelo comincia la sua avventura in Amazzonia. Che continua da 31 anni.
Viene mandato ad Altamira, e si troverà a vivere un altro grandioso e terribile capitolo di storia: l’attacco all’Amazzonia, la distruzione progressiva della foresta da parte dei latifondisti, delle compagnie minerarie, delle migliaia di disperati mandati allo sbaraglio a crearsi un pezzo di terra da coltivare o a cercar fortuna nell’ultima moderna corsa all’oro. Padre Angelo si trova a lavorare accanto agli indios, e si mette a difenderne i diritti violati. «Il momento più difficile arrivò nel 1985», comincia.
«Venni a sapere che la compagnia mineraria americana Gold Amazon aveva deportato a forza gli indios Curuaya-Xibaia e occupato le loro terre, con la connivenza dell’esercito. Indagai e raccolsi le prove dell’occupazione illegittima. Poi andai a litigare con i responsabili della compagnia. Capii che si metteva male, e mi nascosi per nove giorni nella foresta. Mi avrebbero fatto fuori se non fossero venuti dei miei amici indios a tirarmi fuori. Corsi dritto a Brasilia, dal ministro dell’Economia, e mostrai le prove dell’illegalità. Erano state firmate 72 concessioni di sfruttamento minerario in territorio indigeno, quindi in violazione della legge. Le concessioni furono annullate e la Gold Amazon se ne dovette andare».
Questa volta il missionario, invece, resta dov’è, e continua il suo lavoro fra gli indigeni. Sembra che il "piantagrane" si sia calmato, ma nel 1995 il vescovo lo manda aConcordia do Parà, nella diocesi di Abaetetuba. La cittadina è un crocevia della droga. C’è il sospetto che il traffico goda di connivenze "insospettabili". Padre Angelo, bravissimo a mettersi nei guai, comincia a indagare sulle coperture politiche. Individua il responsabile, che è anche un uomo politico fra i più importanti della zona.
«Un giorno mi capitò l’occasione per metterlo con le spalle al muro», racconta. «Seppi che dava una festa, nella sua lussuosa villa, a base di cocaina e ragazzine minorenni a disposizione degli invitati». Padre Angelo si siede all’ingresso della villa e comincia a prendere nota delle targhe delle auto che entrano. Succede il finimondo. Il trafficante manda fuori cinque suoi scagnozzi per cacciarlo, minacciandolo di morte. Ma trovano il capo della polizia ad attenderli. Scatta la perquisizione. Gli agenti trovano sia la droga sia le minorenni. Il noto uomo politico esce poco dopo in manette. Ma non la prende sportivamente, il trafficante. Il mattino dopo ottiene la libertà provvisoria. E la prima cosa che fa è di assoldare 5 killer per eliminare il missionario. «I miei parrocchiani mi vennero ad avvertire. Mi consigliarono di non aspettare neanche un minuto: loro avrebbero bloccato la strada per darmi il tempo di allontanarmi. Andai a Belem. Consegnai al giudice federale due denunce: la prima relativa ai fatti della notte precedente; la seconda perché era stato un atto illegale la liberazione su cauzione del trafficante. Purtroppo dovetti rientrare di corsa in Italia. E per la seconda volta, i miei superiori dissero la fatidica frase: "Con l’Amazzonia è finita, caro Angelo, dovremo pensare a una nuova destinazione". Risposi che non mi restavano molti continenti dove andare».
«I progetti della Provvidenza non erano però finiti», continua il saveriano. «Lo stesso pomeriggio mi arrivò una telefonata da Pordenone, che ha cambiato la mia vita negli ultimi cinque anni. Era un dirigente della Valcucine, che parlava a nome di un gruppo di imprenditori. Mi proponevano di essere il loro referente per un progetto di riforestazione dell’Amazzonia. "Padre", dissero, "noi abbiamo deciso di stanziare 50 milioni all’anno per dieci anni. Si tratta di 500 milioni di lire. Decida lei dove impiegarli. Occorre evitare che la foresta amazzonica venga spazzata via"».
Padre Angelo non si fa pregare. Ottiene l’autorizzazione entusiastica del vescovo di Paranatinga e quella delle autorità locali. Manca solo quella dei saveriani. Che rispondono di no, perché l’Amazzonia per padre Pansa è ormai troppo pericolosa. Allora padre Angelo chiede di essere "prestato" alla diocesi locale, in termine tecnico domanda l’esclaustrazione (che può durare fino a sei anni: l’anno venturo la sua congregazione dovrà decidere se trasformare la presenza di Pansa in missione saveriana o imporgli il rientro).
Così il missionario ricomincia, questa volta in Mato Grosso. Lavora con gli indios Xavante e altre tribù. Coinvolge i coloni. In soli 5 anni il progetto "Amazzonia-Foresta viva" ha quasi completato la fascia di territorio che circonda il parco dello Xingù, riforestandola. Dai vivai escono ogni anno decine di migliaia di piantine, di 300 specie diverse. E il missionario continua a viaggiare col suo fuoristrada per i 17 villaggi che segue anche spiritualmente.
«Questo progetto», conclude, «non è solo una risposta alla distruzione dell’Amazzonia e alla sopravvivenza degli indigeni. È anche una scoperta della loro visione culturale e del loro profondo rapporto con la natura. Per esempio, anche gli indios utilizzano il legname e uccidono gli animali per nutrirsi. Ma, prima, chiedono loro perdono, e dicono: "Io trasformo la tua vita nella nostra vita. Tu non scompari, vivi in noi". C’è una frase che mi ripetono spesso: "Quando sarà tagliato l’ultimo albero, il cielo ci cadrà in testa". Ecco, posso dire che il senso della mia missione è mettere qualche nuovo braccio per sostenere il cielo».
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