sabato 14 marzo 2009

Sarà la nostra fine? - Amazzonia Brasiliana
















Avevamo appena terminato il primo ad Altamira,in Amazzonia. I vari Popoli Indigeni presenti con le loro delegazioni ebbero la possibilità di discutere tra di loro e presentare le loro richieste alle autorità brasiliane ed alla popolazione non indigena. Mi fece impressione il loro modo di comunicare tra di loro pur non utilizzando la stessa lingua. Lo fecero con canti, danze e rappresentazioni. I loro gesti erano carichi di sentimenti e le loro danze ( che per loro equivalgono a ritualità sacra) trasmettevano quello che pensavano e che volevano dire. Sopratutto gli sciamani erano coloro che parlavano in nome delle rispettive delegazioni e decidevano quello che si doveva dire ai non Indios. Eccone un esempio. (Padre Angelo).

L’ APOCALISSE DELLE POPOLAZIONI INDIGENE DELL’ AMAZZONIA

“ Quando anticamente gli abitanti della foresta impazzirono e cominciarono a distruggere gli alberi e ad uccidere gli animali senza necessità, TUPÃ , Il Grande Spirito dal quale viene la vita, si adirò e decise di sterminare i pazzi umani prima che essi distruggessero l’ universo. TUPÃ diede ordine ai fiumi perché si gonfiassero e trasbordassero. E l’acqua cominciò a salire, più alta delle inondazioni di ogni anno all’epoca delle grandi acque. Tutto venne sommerso e pochi animali riuscirono a salvarsi in cima agli alberi. Così fu anche degli uomini, prima impazziti nel distruggere e poi impazziti dal terrore della morte.

Ma TUPÃ pensò che si potevano ancora riparare i danni e fece in modo che le acque voltassero nel letto dei fiumi e riapparisse la terra asciutta.

Ai pochi sopravvissuti, ormai pentiti della loro pazzia, TUPÃ disse: “ Se in futuro ricomincerete a distruggere e ad agire come pazzi, non soltanto farò crescere l’acqua, ma vi punirò anche con il fuoco. Quando acqua e fuoco si uniranno contro di voi, sarà la vostra fine per sempre”.

Con questo racconto mitico, Jaraqui Tuyã Kaunk, il grande pajè (= sciamano) della nazione indigena amazzonica ARARA, che vive lungo le sponde del fiume Iriri, nella regione del fiume Xingu, in Amazzonia, celebrava la festa degli Indios riuniti in Altamira dal 20 al 25 Febbraio scorso, in occasione del I° Incontro degli Indios di tutto il Brasile e di altri aborigeni di varie parti del mondo.

Al suono dei flauti sacri, la danza rituale terminò attorno ai fuochi dell’accampamento, con l’aspersione di acqua attinta nell’ igarapè (= ruscello) vicino: acqua usata per bere, per preparare il cibo e per il bagno quotidiano.

Acqua e fuoco insieme: è ciò che sta terrorizzando gli Indios della regione del fiume Xingu e di gran parte dell’Amazzonia Brasiliana. I grandi incendi della foresta disboscata e la devastazione di questi ultimi anni non solo hanno coperto di fumo e di ceneri gran parte del Brasile, ma hanno spinto sempre più verso l’interno i pochi Indios sopravvissuti a quasi 500 anni di massacri e di violenze.

Assieme al fuoco avanzano le leve sempre più numerose di coloni e di “senza terra” alla ricerca di un appezzamento di foresta da abbattere e da cui trarre cibo e lavoro. Coloni spinti sempre più avanti da una pazza politica di occupazione e di sfruttamento incontrollato della foresta amazzonica.

Per di più, i grandi progetti realizzati o pianificati per produrre energia idroelettrica mediante la costruzione di faraoniche dighe e la susseguente formazione di enormi laghi artificiali, provocano non solo meraviglia, ma un autentico terrore nelle popolazioni indigene.

Per l’anno 2010 sono previste decine e decine di altre dighe che inonderanno più del 5% dell’Amazzonia Brasiliana. Il 5% sembra poca cosa: ma se si tiene conto della vastità della regione amazzonica, arriviamo alla bazzecola di più di 250.000 chilometri quadrati. All’ incirca la superficie dell’intera Germania Federale.

Acqua e fuoco insieme: sarà arrivata la fine della storia dell’umanità sulla terra?

Questa la grande domanda che gli Indios riuniti ad Altamira si sono chiesti. E per la prima volta, insieme hanno deciso di opporsi a questa nuova pazzia dell’ Uomo Bianco. Se sarà la fine, per lo meno gli Indios non si riterranno complici di questo disastro universale. TUPÃ non potrà essere arrabbiato con loro, e chissà che permetta la sopravvivenza dei Popoli Indigeni i quali hanno giurato di ricomporre quello che è già stato distrutto per poter ricominciare a vivere quando sarà il momento giusto.

Nel confronto con il mondo dei “civilizzati”, i “selvaggi” della foresta amazzonica hanno dimostrato chi essi siano in realtà: gli unici non impazziti in questo caos mondiale dove la scala dei valori è stata messa sottosopra, cominciando dal valore della vita e della libertà, dal valore della convivenza armoniosa tra Uomo e Natura, tra Uomini e Cosmo.

Chi sono allora i veri “selvaggi” di oggi? Con certezza non gli Indios: essi sono gli abitanti della selva naturale e non di una selva artificiale costruita in nome del “progresso e dello sviluppo” a tutti i costi.

Altamira, Febbraio 1989: un momento storico e decisivo per le Popolazioni Indigene e per gli altri abitanti tradizionali dell’Amazzonia.

È ora di farla finita con distruzioni e con violentazioni dei diritti umani e dei diritti dell’ambiente naturale.

Se il prezzo di questo “progresso e sviluppo” è quello che viene presentato dagli interessi del Governo Brasiliano e di altri Governi stranieri, è meglio farne a meno: così hanno dichiarato i “saggi” della natura amazzonica.

Jaraqui Tuyã Kaunk terminò la cerimonia con una invocazione al Grande Spirito TUPÃ :

“ O TU che determini il caldo ed il freddo, il sole che riscalda e la pioggia che vivifica e rinfresca, orienta il nostro agire affichè l’acqua non spenga il fuoco ed il fuoco non distrugga la foresta che genera l’acqua della pioggia. Aiutaci a non uccidere la purezza dei nostri fiumi, a non denudare la Terra Madre, perché senza di essa non potremo continuare a vivere, e con noi tutti gli animali della foresta. Fai in modo che non diveniamo pazzi, né per interesse, né per il terrore della fine della nostra storia”.

Altamira ( Stato del Parà – Brasile ) 28 Febbraio 1989.

( Redazione del Padre Angelo Pansa ).

Operazione Xavante-Amazzonia Foresta Viva
















OPERAZIONE XAVANTE

( rinominata in seguito Progeto Amazzonia Foresta Viva )

Amico dei poveri e nemico delle potenti multinazionali del legname, dopo aver ricevuto diverse volte minacce di morte è riuscito a coinvolgere gli indios in un grande progetto di riforestazione del Mato Grosso, che fa sperare migliaia di persone. (di ALBERTO LAGGIA)

Gli alberi sono le braccia che sorreggono il cielo. Quan­do avremo tagliato l'ultimo albero, il cielo ci ca­drà addosso». Così vanno di­cendo da generazioni gli in­dios dell'Amazzonia. Inva­no. La devastazione della fo­resta amazzonica non si è fermata nemmeno davanti agli allarmi lanciati dalla co­munità scientifica interna­zionale, che ha dimostrato il collegamento diretto tra effetto serra e deforestazio­ne. Dal '95 al '97, 60 mila chilometri quadrati di fore­sta, un'estensione pari a una volta e mezza la Svizze­ra, sono stati distrutti, tre volte tanto (21.130 chilome­tri quadrati) l'area che se n'era andata in fumo o in le­gna commerciabile nell'in­tero decennio 1978-1988.

Così l'Amazzonia, il pol­mone verde del pianeta, si sta inesorabilmente atrofiz­zando, divorata dalle socie­tà minerarie e idroelettri­che, dalla colonizzazione forzata, dalle grandi compa­gnie che controllano il commercio mondiale del legna­me esotico e, per ultimo, da­gli incendi.

Eppure proprio nel Mato Grosso, dove la foresta bra­siliana si è trasformata per 1'80 per cento in desolante prateria, gli alberi ora stan­no ricrescendo grazie agli indios Xavante, a padre An­gelo Pansa, missionario sa­veriano da trent'anni in Amazzonia, e alla Valcuci­ne, un'azienda di Pordeno­ne. Da tempo padre Ange­lo coltivava il suo progetto "impossibile": ripiantare l'Amazzonia albero per albero. «Per dimostrare che ciò è fattibile bisognava sceglie­re un' area ormai desertifica­ta e convincere gli indios, che sopravvivono lì sempre più precariamente, a trasfor­marsi da raccoglitori di frut­ta e cacciatori in agricolto­ri». A dare ascolto al missio­nario sono stati gli indios Xavante, che vivono nel ter­ritorio di Parabubure, nel­l'altopiano dove nasce il fiu­me Xingu nel cuore del Ma­to Grosso. A fornire invece le risorse economiche ci ha pensato la Valcucine, una azienda che, tramite la creazione dell'associazione “Bioforest”, si sta impegnando in progetti per la rigenera­zione di ecosistemi forestali distrutti o degradati.

È nata così l'"Operazione Xavante": un progetto sperimentale or­mai decennale, finanziato dal mobilificio di Pordenone con cento milioni l'anno, che prevede la messa a dimora in un'area di tremila ettari di savana di 300 mila alberi di alto fusto e di altrettanti di minori dimensioni.

Diviso in quattro gruppi, l'intero villaggio Xavante di São Pedro, lo scorso marzo ha iniziato a ripulire i pasco­li , a colpi di zappa, dalla bra­chiaria, la graminacea alta fino a due metri che ha inva­so le zone disboscate e che è la causa del propagarsi dei grandi incendi scoppiati nel Nord dell'Amazzonia, il Roraima, e giunti fino al Mato Grosso.

Solo questo intervento ha permesso di salvare 30 mila alberi dal fuoco e di racco­glierne i frutti. Poi gli indios, recuperando le specie sopravvissute agli incendi, hanno avviato la ripiantu­mazione: a un ritmo di 400-500 piante al giorno, da ottobre, stanno piantando 200 specie arboree tipiche di questi luoghi per ettaro. Intanto le zone dissodate vengono utilizzate dagli Xa­vante anche per coltivazio­ni annuali (come mais, riso, fagioli, manioca, ananas). Osserva padre Pansa: « Gli indios hanno capito che la riforestazione è il loro futu­ro. Quanto tempo ci vorrà perché lo capisca anche l'uo­mo bianco? ».

Padre Angelo è un "missionario scomodo". Fin dal suo arrivo in Amazzonia, al­la fine degli anni '60, si è sempre schierato in difesa degli indios, contro i sopru­si del Governo brasiliano e gli interessi "sporchi" delle grandi società minerarie, dei fazendeìros, e dei traffi­canti di droga.

Nell'85 riesce a documen­tare i misfatti dell'impresa Brasinor ai danni degli in­dios Curuaya-Xipaia per lo sfruttamento dell'oro, e per questo è minacciato di mor­te e braccato nella foresta per otto giorni. Nell'87 sfug­ge a un altro attentato nella missione di São Félix do Xingu. Nell'88 a Berlino è te­stimone d'accusa, come consulente del Tribunale Permanente dei Diritti dei Popoli, alla Sessione contro il Fondo Monetario Interna­zionale e la Banca Mondiale.

Due anni fa viene nuovamente fatto oggetto di minacce di morte, stavol­ta da trafficanti di droga nel­lo Stato del Parà.

- Perché dovrebbe funzio­nare il progetto avviato dagli Xavante?

« Questa volta gli indios non si fermeranno, perché con la coltivazione stanno raggiungendo l'autonomia alimentare perduta da de­cenni. Già altri gruppi indi­geni hanno chiesto di avere un loro proprio progetto, e sono disposti ad attuarlo an­cor prima di avere i finan­ziamenti» .

- Non si tratta quindi di un'utopia pensare al­l'Amazzonia verde e agli indios liberi?

« No, utopia è pensare di poter sfruttare l'Amazzonia come è stato fatto finora. Abbiamo innescato bombe a orologeria che presto ci scoppieranno in faccia. Si sono costruite, per esem­pio, enormi dighe seppellen­do legname pregiato e una "biomassa" che supera di gran lunga i costi delle stes­se e dell'energia prodotta. La diga di Tucuruì, che ha un invaso di 4.500 chilome­tri quadrati, due volte la pro­vincia di Milano, ha som­merso legname per un valore equivalente al debito este­ro del Brasile (190 miliardi di dollari), e dopo soli dieci anni di vita il lago è già gravemente interrato. La terra amazzonica grida, ma la co­scienza non è ancora arriva­ta all'inversione di rotta» .

- Ma alcuni progetti di ­riforestazione non furono finanziati anche dal Go­verno brasiliano?

« Quella fu una finta rifo­restazione. E i risultati so­no sotto gli occhi di tutti: nel '67 inizia la corsa ai finanziamenti per la riforesta­zione. In 10 anni sono stati erogati 10 miliardi di dolla­ri per piantumare pini ed euca­liptus, per poi tagliarli e far­ne cellulosa o carbone vegetale e intanto la fo­resta nativa scompariva e restavano i pascoli. Questo si chiama imbroglio, non riforestazione. E le conse­guenze sono che dall' anno scorso ad oggi abbiamo avu­to 240 mila chilometri qua­drati d'Amazzonia interes­sati dagli incendi, ovvero due terzi dell'Italia. Si è calcolato che, allora, per etta­ro si spesero 4.500 dollari. Oggi lo facciamo, e per dav­vero, con soli 500 dollari» .

- Qualcuno sta ostacolan­do il progetto?

« Per ora no. Nessuno s'az­zarda a mettere i bastoni tra le ruote in zona indige­na. Gli Xavante sono cono­sciuti e temuti: per rivendi­care i loro diritti, in passato hanno già marciato in asset­to di guerra su Brasilia, mi­nacciando di mettere sotto­sopra la sede del Funai (la fondazione governativa che dovrebbe tutelarli, ndr). Ve­dremo subito il comporta­mento del Governo quando arriveranno al confine i macchinari agricoli che ci hanno donato in Italia. Se imporranno dazi impossibi­li, significherà che è partito il boicottaggio» .

- La Chiesa vi ha dato il suo appoggio?

« Totale, da parte dei vesco­vi delle province come pure della mia congregazione, al­la quale chiederò qualche confratello al mio fianco» .

Alberto Laggia

venerdì 13 marzo 2009

Uno sbaglio di stampa?











IN CHI RIPORRE LA NOSTRA SPERANZA?

Stiamo passando un momento di crisi economica a livello mondiale dovuta a varie cause determinate dalla data globalizzazione in atto.

Discussioni se ne fanno molte, tentativi di correre ai ripari sono in atto, critiche al sistema bancario ed alle speculazioni in auge negli ultimi anni non mancano, anzi…

Mi è capitato di rivedere tra le varie documentazioni che sto catalogando, un mio articolo che ho usato varie volte in incontri analizzando la congiuntura in cui ci si trovava, soprattutto nella regione amazzonica brasiliana. In tale articolo facevo notare come quasi tutto ciò che accadeva era strettamente legato al “dio danaro”.

E proprio riguardo al denaro ricordavo come nelle sue peregrinazioni e nei suoi discorsi alle folle Gesù Cristo in una sola occasione ha dichiarato che ci sono due realtà che non possono combinare e stare insieme. Vale a dire che, o si sceglie una, o si sceglie l’altra.

Fu quando dichiarò: “Non potete servire a due padroni: o si serve Dio, o si serve il denaro”.

Se poi ricordiamo quello che ci è presentato a varie riprese dalla Sacra Scrittura ( sia Antico come Nuovo Testamento) dobbiamo aver presente che “non si deve porre la propria fiducia e la propria speranza se non in Dio”, dato che tutte le altre realtà sono transitorie e possono venire meno a qualunque momento.

Ed eccoci di fronte alla crisi attuale: il “dio danaro” ci sta tradendo: borse in crollo, banche in fallimento, disoccupazione e tutto il resto che stiamo sperimentando. Se pochi anni fa il “dollaro” tirava e la faceva da dominatore, al suo crollo stanno crollando tutti i piccoli dei ( o demonietti) del pianeta.

Parlando del “dollaro”: avete mai fatto attenzione ad una scritta che si trova sulle banconote del dollaro ( mi pare in tutte le taglie, dalla più piccola alla maggiore )? Ci si trova di fronte ad un assurdo o ad uno sbaglio di stampa che andrebbe corretto al più presto per evitare ambiguità inammissibili.

Per meglio capire potete vedere dalle illustrazioni presentate sopra che cosa è impresso sulla fotocopia di una banconota ( ..sperando di non essere incriminato come falsario…!).

IN GOD WE TRUST “ : NOI SPERIAMO IN DIO, ossia : in Dio è la nostra speranza. Trovandosi impressa tale frase su delle banconote il cui valore è legato all’oro, mi chiedo se non manchi una “ L “ nella frase impressa. Sarebbe più coerente che ci fosse scritto: “ IN GOLD WE TRUST “, non vi pare? Così si eviterebbe di voler mettere insieme Dio e il suo antagonista.

Se invece vogliamo continuare a imprimere tale frase vorrebbe dire che il nostro dio è l’ ORO, simile al vitello d’oro adorato da tanti in passato e che vogliamo continuare ad adorare ancora oggi, nonostante l’amara esperienza che stiamo facendo deponendo tutta la nostra speranza in questo “falso dio”, del quale dovremmo servirci, ma mai lasciarci schiavizzare da lui.

Padre Angelo Pansa. Marzo 2009.

lunedì 9 marzo 2009

Intervista Rivista Jesus

Il saveriano celebra la Messa
sul fiume Xingu



















Un vecchio Sciamano degli indios Kayapò













Il momento in cui gli uomini della
V Compagnia, guidata da padre Pansa,
ritrovano padre Schouster a Stanleyville
( oggi Lubumbashi, nel centro del Congo).
E' il novembre 1964.
Schouster è l'unicosopravvissuto dei religiosi
presenti in città: gli altri 37 vengono ritrovati
sgozzati e gettati in una fossa comune.
Ferito ad una spalla, si è salvato perchè
creduto morto: la barba lunga ha nascosto la sua gola.









Padre Angelo a Sanleyville,nel novembre 1964.
A suainsaputa gli viene scattataquesta foto,
che finirà poipubblicata su Paris Match
procurandogli molti guai:
verrà richiamato a Roma per spiegare
il perchè del mitra in mano









Padre Angelo Pansa, in viaggiosu una piroga
lungo il fiume Curuà








Un indio nella zona di Belèm,
Stato del Parà








Una foto di padre Angelo nel 1964 in Congo,
quando era alla guida della V Compagnia
Padre Angelo durante uno dei suoi
spostamenti di villagio in villaggio.
Qui si trova el bacino dello Xingu,
il fiume ( affluente del Rio delle
Amazzoni) che attraversa l'omonimo
parco naturale. Il progetto del
missionario sta riforestando il
territorio intorno all'area protetta


Agli estremi confini

IL MISSIONARIO DELL’OCA SELVAGGIA
di Luciano Scalettari

Qualcuno lo definisce una "pellaccia". Anche perché è sfuggito alla morte in diverse occasioni. Pochi sanno però che padre Angelo Pansa, negli anni ’60, si ritrovò in Congo alla guida di una compagnia di soldati di ventura. Obiettivo: liberare i religiosi ostaggio della guerriglia "mulelista".

(Il progetto "Amazzonia-Foresta viva" è finanziato da un gruppo di imprese del nord Italia, attraverso la onlus chiamata "Bioforest". Le imprese sono la Valcucine e l’Elettrolux di Pordenone, la Same di Treviglio, la Foppapedretti e l’Asm di Brescia. Bioforest, oltre che in Brasile, finanzia progetti di riforestazione in Equador. Inoltre sta realizzando un bioparco vicino a Pordenone, e attività di sensibilizzazione nelle scuole friulane.

Tra il 1964 e il 1967 il saveriano si dedicò al salvataggio di quasi 3 mila religiosi rimasti ostaggio dei ribelli mulelisti, durante la rivoluzione dei Simba.)

«I tuoi superiori hanno indovinato. Prima, dove andavi, piantavi grane. Adesso pianti alberi». Così dice spesso il vescovo di Paranatinga, Mato Grosso, a padre Angelo Pansa: «Mi prende in giro, bonariamente, perché conosce la mia storia. E in effetti, sì, devo ammettere che ho un passato un po’ particolare». Gli eufemismi si sprecano. "Piantagrane", riferito a padre Angelo Pansa, significa che per tre volte la congregazione dei saveriani, a cui appartiene, l’ha dovuto trasferire per salvargli la vita, vietandogli di rimettere piede nella missione dove operava. "Passato un po’ particolare" significa che il 5 novembre 1966 si trovava davanti a un plotone di esecuzione dei ribelli mulelisti congolesi, durante la rivoluzione dei Simba; nel 1985 stava nascosto nella foresta amazzonica lungo il fiume Xingù, mentre motovedette e aerei di una compagnia mineraria americana gli davano la caccia; nel 1997 lasciava in fretta e furia la città di Abaitetuba perché un grosso fuoristrada con 5 sicari a bordo girava per la città, per scovarlo e ucciderlo.

Da cinque anni padre Angelo è missionario nella prelatura di Paranatinga, in Brasile, dove, appunto, pianta alberi lavorando gomito a gomito con gruppi di coloni "sem terra", con qualche fazendero, e soprattutto con gli indios Xavante, Tapirapé e Bakairì. Mentre tutto intorno tagliano e bruciano pezzi di foresta equatoriale, polmone vivo del mondo, lui porta avanti il suo progetto: "Amazzonia-Foresta viva", che ha l’obiettivo di rimboschire aree che hanno già subìto in passato la stessa furia devastatrice.

Padre Angelo Pansa ha 72 anni, ma ne dimostra come minimo una decina in meno. Bergamasco "doc" – è originario di Mozzo, a pochi chilometri da Dalmine – ha alle spalle 47 anni di sacerdozio e altrettanti di missione, ed è entrato in seminario 60 anni fa. Parla piuttosto bene 7 lingue, e con altre quattro – come dice lui – «si arrabatta». Macina ogni mese centinaia di chilometri nelle sgangherate piste amazzoniche, dorme in macchina o in qualche capanna di fortuna nei villaggi indigeni, mangia e beve quello che trova. Forse per questo ha la pelle dura come cuoio e cotta dal sole, mantiene un fisico asciutto, e il suo volto è scavato da profonde rughe.

Il racconto della sua storia di missionario dura molte ore. Ma in un solo momento la sua voce sembra incrinarsi per la commozione, quando ricorda i suoi quattro confratelli trucidati in Congo, che non è riuscito a salvare, e l’incontro con la madre di uno di loro: «Mi disse: "Caro Angelo, ne hai salvati tanti, di religiosi, ma mio figlio l’hai condannato a morte". Che si può dire a una madre che ha perduto il figlio in quel modo? Ci si può giustificare dicendo che in quel momento mi era stato proibito di continuare le spedizioni per salvare i missionari tenuti in ostaggio? No, di fronte a quel dolore terribile si può solo tacere. E il dubbio te lo porti in cuore per sempre: dovevo disobbedire e andare avanti lo stesso?». Torniamo un passo indietro. Padre Angelo viene ordinato prete nel 1956 a Piacenza. I saveriani lo destinano al Congo belga, il Paese che presto cambierà nome in Zaire. Stanno per inviare là il primo gruppo di sei missionari. Angelo e un confratello faranno da apripista. È il 1958. Il gruppetto di giovani saveriani fa appena in tempo a insediarsi nel Congo orientale e ad aprire le prime missioni.

Il Paese diventa indipendente il primo ottobre 1960. E subito iniziano le lotte per il controllo del Paese, le insurrezioni, le repressioni militari. Nel 1964, inizia il capitolo più sanguinoso del neonato Congo: scoppia la rivoluzione dei Simba, così si facevano chiamare i seguaci di Mulele, che mette a ferro e fuoco tutto l’Est per altri tre anni.

«Oggi è un po’ diverso», racconta padre Angelo, «ma all’epoca i ribelli non distinguevano tra missionari, civili e mercenari. Eri bianco e basta. E l’odio verso gli ex colonialisti era molto forte. Così, appena divampata la guerra civile, i Simba presero in ostaggio tutti i religiosi presenti sul territorio. Erano quasi 3 mila. Io ero a Muenga, nella regione del Kivu, fuori dall’area occupata dai ribelli. Ma i miei confratelli erano rimasti bloccati nelle missioni dell’interno, a Nakiliza, Fizi e Baraka».

Padre Angelo non perde tempo. Parte, da solo, entra nel territorio dei ribelli, che gli concedono di portare fuori tutti i religiosi. Il vescovo si oppone, pensa che la situazione si normalizzerà, non vuole abbandonare la gente. «Purtroppo la sua previsione fu sbagliata», dice il missionario. «Me ne uscii solo con padre Pirani, perché aveva il brevetto di pilota come me e se i ribelli l’avessero scoperto l’avrebbero ammazzato subito. Capii subito che bisognava aggredire la situazione, senza lasciarsi mai intimorire. Tornando indietro, ai militari dei posti di blocco, dicevo: "Guardate che torno. E non voglio ricominciare a discutere. Non avete diritto di trattenere i religiosi. O me li consegnate, o li porterò via con la forza"».

Era l’inizio di giugno 1964. Persa quell’opportunità di fuga, i religiosi rimarranno in ostaggio per due anni e mezzo. Alcuni di loro non usciranno mai dal Congo. «All’epoca non c’erano satellitari né radio», continua. «Non avevamo alcuna notizia, se non quelle che arrivavano passando di voce in voce. Sapevamo che qualcuno era già stato ucciso».

Rientrato a Bukavu, il vescovo locale autorizza padre Angelo a tornare fra i ribelli per tirare fuori preti e suore. Nel frattempo Mobutu, che è ancora capo di stato maggiore dell’esercito (diventerà presidente solo nel 1965, con un colpo di Stato), prepara la controffensiva. «Doveva a ogni costo riconquistare Uvira», dice padre Angelo, «perché è il porto che serve tutta la regione. Lo avrebbe fatto col sistema americano: bombardamento a tappeto e poi avanzata delle truppe. Sapevo che, al cadere delle prime bombe, gli ostaggi sarebbero stati tutti eliminati. Andai da lui, a Kinshasa. Gli chiesi di darmi un gruppo di uomini e di permettermi di precedere l’offensiva militare, in modo da liberare gli ostaggi con un colpo di mano prima dell’arrivo dell’esercito. Per tutta risposta mi fece colonnello e mise ai miei ordini 45 mercenari. Si formò la V Compagnia. Fra quegli uomini c’era anche Ronald Biggs, esperto in esplosivi. Quello che nel 1963 aveva fatto la grande rapina al treno postale in Scozia. All’epoca non lo sapevo ma era latitante. Nel suo campo era eccezionale: quando avevamo bisogno di far atterrare gli elicotteri per portare via i missionari, in un colpo solo creava una radura».

L’operazione ideata dal religioso funziona. Mentre i ribelli si apprestano ad attaccare la città di Bukavu, l’esercito di Mobutu contrattacca e spezza la colonna nemica in avanzata. Il manipolo del saveriano precede i governativi e giocando sulla velocità libera i 30 religiosi di Uvira e altri sei nei paesi vicini.

Tornato a Bukavu, però, padre Angelo trova l’amara sorpresa: è arrivato dalla casa madre dei saveriani l’ordine perentorio di fermarsi, "in virtù di santa obbedienza". Stava per ripartire per liberare quegli ultimi sei saveriani. La missione è annullata. Padre Angelo torna in Italia per dare spiegazioni. Tuttavia, rientrato a Kinshasa, la capitale congolese, viene mandato a chiamare da Mobutu e dal Nunzio. Il primo gli fa gran complimenti, perché da quel primo successo militare è cominciata la rivincita sui Simba che soffocherà la rivolta; il secondo gli dice chiaro e tondo che l’ordine del superiore saveriano può essere ignorato, perché il suo, in quanto rappresentante del Papa, è superiore. Il Nunzio pone una sola condizione: «Sappi che, se ti prendono, io l’autorizzazione negherò di avertela data».

Padre Pansa di condizioni ne pone molte: di scegliersi gli uomini, di avere pieni poteri, di non dover sottostare a ordini di chicchessia, di aver pieno appoggio logistico e militare. «Iniziò un lavoro massacrante. Andai a stanare tutti i religiosi che riuscivo a raggiungere, e uno a uno li portai in salvo. Liberai una buona parte di quei 3 mila religiosi, ma ben 217 furono trucidati. Per due anni e mezzo la missione del "colonnello Angelo Pansa" fu solo questa. «Non ho mai sparato», precisa, «ma certo non si andava in gita. Gli scontri a fuoco tra mercenari e ribelli erano frequenti. Parecchi dei miei uomini furono uccisi. Tra i ribelli molti di più. E non è andata sempre bene: a Stanleyville (l’odierna Lumumbashi, ndr) siamo arrivati troppo tardi. Abbiamo trovato solo la fossa comune, con 37 cadaveri dentro. È davanti a quella tragica immagine che qualcuno a mia insaputa mi ha scattato una foto col mitra in spalla».

Quella foto finisce, chissà come, su Paris Match. Padre Angelo viene riconosciuto e convocato immediatamente a Roma. «Ho detto ai miei superiori di guardare bene cosa c’era oltre quel mitra, di osservare quei religiosi con le gole tagliate. E ho aggiunto: "Ci sono ancora 9 religiosi da salvare. Se posso farlo da prete, bene, se no lo farò lo stesso"». Padre Pansa lo farà da prete. Questa volta gli dicono di andare avanti. «Alla fine», spiega, «mi restavano gli ultimi due. Erano miei confratelli, bloccati da oltre due anni a Nakiliza. I mercenari ormai erano fuori controllo, non mi fidavo più nemmeno dei miei. Così andai da solo. Mi feci catturare dai ribelli e spiegai loro che i mercenari stavano per arrivare. Se avessero ucciso i due missionari, Nakiliza sarebbe stata rasa al suolo, di loro non se ne sarebbe salvato uno. Era il 5 novembre 1966. Per tutta risposta mi misero al muro, e rimasi tutto un pomeriggio col plotone d’esecuzione schierato. Mi ripetevano: "Girati che ti fuciliamo". E io rispondevo: "No, voglio guardare in faccia il primo che spara. Poi costui dovrà fare i conti con il mio spirito". Giocai sulla loro paura degli spiriti, e funzionò. Durante la notte riuscii a fuggire. Poi, rintracciati i due missionari, li portai in salvo».

Padre Angelo finisce, così, la sua missione. In Italia gli viene detto che deve scordarsi di tornare in Congo. Anche perché nel frattempo, nel giugno 1967, un gruppo di mercenari tenta un golpe ai danni di Mobutu. Tra i congiurati ci sono anche alcuni degli uomini di Pansa, e il dittatore congolese lo sospetta di aver fatto parte del complotto. Mobutu mette sulla testa del missionario la taglia di 12 milioni di franchi belgi. Nell’ottobre dello stesso anno padre Angelo comincia la sua avventura in Amazzonia. Che continua da 31 anni.

Viene mandato ad Altamira, e si troverà a vivere un altro grandioso e terribile capitolo di storia: l’attacco all’Amazzonia, la distruzione progressiva della foresta da parte dei latifondisti, delle compagnie minerarie, delle migliaia di disperati mandati allo sbaraglio a crearsi un pezzo di terra da coltivare o a cercar fortuna nell’ultima moderna corsa all’oro. Padre Angelo si trova a lavorare accanto agli indios, e si mette a difenderne i diritti violati. «Il momento più difficile arrivò nel 1985», comincia.

«Venni a sapere che la compagnia mineraria americana Gold Amazon aveva deportato a forza gli indios Curuaya-Xibaia e occupato le loro terre, con la connivenza dell’esercito. Indagai e raccolsi le prove dell’occupazione illegittima. Poi andai a litigare con i responsabili della compagnia. Capii che si metteva male, e mi nascosi per nove giorni nella foresta. Mi avrebbero fatto fuori se non fossero venuti dei miei amici indios a tirarmi fuori. Corsi dritto a Brasilia, dal ministro dell’Economia, e mostrai le prove dell’illegalità. Erano state firmate 72 concessioni di sfruttamento minerario in territorio indigeno, quindi in violazione della legge. Le concessioni furono annullate e la Gold Amazon se ne dovette andare».

Questa volta il missionario, invece, resta dov’è, e continua il suo lavoro fra gli indigeni. Sembra che il "piantagrane" si sia calmato, ma nel 1995 il vescovo lo manda aConcordia do Parà, nella diocesi di Abaetetuba. La cittadina è un crocevia della droga. C’è il sospetto che il traffico goda di connivenze "insospettabili". Padre Angelo, bravissimo a mettersi nei guai, comincia a indagare sulle coperture politiche. Individua il responsabile, che è anche un uomo politico fra i più importanti della zona.

«Un giorno mi capitò l’occasione per metterlo con le spalle al muro», racconta. «Seppi che dava una festa, nella sua lussuosa villa, a base di cocaina e ragazzine minorenni a disposizione degli invitati». Padre Angelo si siede all’ingresso della villa e comincia a prendere nota delle targhe delle auto che entrano. Succede il finimondo. Il trafficante manda fuori cinque suoi scagnozzi per cacciarlo, minacciandolo di morte. Ma trovano il capo della polizia ad attenderli. Scatta la perquisizione. Gli agenti trovano sia la droga sia le minorenni. Il noto uomo politico esce poco dopo in manette. Ma non la prende sportivamente, il trafficante. Il mattino dopo ottiene la libertà provvisoria. E la prima cosa che fa è di assoldare 5 killer per eliminare il missionario. «I miei parrocchiani mi vennero ad avvertire. Mi consigliarono di non aspettare neanche un minuto: loro avrebbero bloccato la strada per darmi il tempo di allontanarmi. Andai a Belem. Consegnai al giudice federale due denunce: la prima relativa ai fatti della notte precedente; la seconda perché era stato un atto illegale la liberazione su cauzione del trafficante. Purtroppo dovetti rientrare di corsa in Italia. E per la seconda volta, i miei superiori dissero la fatidica frase: "Con l’Amazzonia è finita, caro Angelo, dovremo pensare a una nuova destinazione". Risposi che non mi restavano molti continenti dove andare».

«I progetti della Provvidenza non erano però finiti», continua il saveriano. «Lo stesso pomeriggio mi arrivò una telefonata da Pordenone, che ha cambiato la mia vita negli ultimi cinque anni. Era un dirigente della Valcucine, che parlava a nome di un gruppo di imprenditori. Mi proponevano di essere il loro referente per un progetto di riforestazione dell’Amazzonia. "Padre", dissero, "noi abbiamo deciso di stanziare 50 milioni all’anno per dieci anni. Si tratta di 500 milioni di lire. Decida lei dove impiegarli. Occorre evitare che la foresta amazzonica venga spazzata via"».

Padre Angelo non si fa pregare. Ottiene l’autorizzazione entusiastica del vescovo di Paranatinga e quella delle autorità locali. Manca solo quella dei saveriani. Che rispondono di no, perché l’Amazzonia per padre Pansa è ormai troppo pericolosa. Allora padre Angelo chiede di essere "prestato" alla diocesi locale, in termine tecnico domanda l’esclaustrazione (che può durare fino a sei anni: l’anno venturo la sua congregazione dovrà decidere se trasformare la presenza di Pansa in missione saveriana o imporgli il rientro).

Così il missionario ricomincia, questa volta in Mato Grosso. Lavora con gli indios Xavante e altre tribù. Coinvolge i coloni. In soli 5 anni il progetto "Amazzonia-Foresta viva" ha quasi completato la fascia di territorio che circonda il parco dello Xingù, riforestandola. Dai vivai escono ogni anno decine di migliaia di piantine, di 300 specie diverse. E il missionario continua a viaggiare col suo fuoristrada per i 17 villaggi che segue anche spiritualmente.

«Questo progetto», conclude, «non è solo una risposta alla distruzione dell’Amazzonia e alla sopravvivenza degli indigeni. È anche una scoperta della loro visione culturale e del loro profondo rapporto con la natura. Per esempio, anche gli indios utilizzano il legname e uccidono gli animali per nutrirsi. Ma, prima, chiedono loro perdono, e dicono: "Io trasformo la tua vita nella nostra vita. Tu non scompari, vivi in noi". C’è una frase che mi ripetono spesso: "Quando sarà tagliato l’ultimo albero, il cielo ci cadrà in testa". Ecco, posso dire che il senso della mia missione è mettere qualche nuovo braccio per sostenere il cielo».

Luciano Scalettari



























































giovedì 5 marzo 2009

Intervista a Berlino 1988











Intervista a P. Pansa, missionario italiano in Amazzonia, rappresentante a Berlino delle Organizzazioni Indigene Brasiliane. ( pubblicato da SIAL 22/88 ) in occasione della Sessione del Tribunale Permanente dei Diritti dei Popoli sulle Politiche del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale.

" L’URGENZA FONDAMENTALE PER INDIOS E AMAZZONIA :

BLOCCARE I MEGAPROGETTI "

SIAL 461. P. Angelo Pansa è un missionario saveriano italiano, da 20 anni in Brasile nell’area del fiume Xingù nello Stato del Parà. Profondo conoscitore della realtà amazzonica e del mondo indigeno, collabora con il Consiglio Indigenista Missionario (CIMI) e con la Commissione Pro-Indio brasiliana. A Berlino è stato invitato come “testimone” del genocidio che gli Indios stanno subendo in Amazzonia.

Ci può completare in sintesi il quadro del disboscamento in atto in Amazzonia?

Secondo il ricercatore Alberto Setter, le aree distrutte con il fuoco in Amazzonia nel 1987 corrispondono ad una superficie continua di 247.000 kmq, il che corrisponde all’area della Germania Occidentale. Gli incendi della foresta hanno riversato nell’atmosfera del globo più di 44.000 tonnellate di ossido di carbonio

( corrispondente all’inquinamento atmosferico che la metropoli di São Paulo ha prodotto in tutto il secolo).

I composti di carbonio derivanti da questi incendi superano di gran lunga i quantitativi di fumo e gas prodotti dall’eruzione del vulcano El Chichòn in Messico nell’Aprile del 1982.

Un primo preventivo degli incendi nel 1988 sono dell’ordine di 260.000/280.000 kmq di foresta amazzonica. Verranno liberati nell’atmosfera: 50 milioni di tonnellate di carbonio puro; 44 milioni di tonnellate di monossido di carbonio; 6 milioni di tonnellate di fuliggine ( corrispondente alla fuliggine emessa da tutti i vulcani del mondo in un anno).

Nel 1987 sono stati incendiati 24,7 milioni di ettari di foresta amazzonica. Calcolando una media di 150 metri cubi di legname per ettaro, sono andati distrutti più di 3,5 miliardi di metri cubi di legname. Al prezzo di legname per carbone vegetale ( 30 dollari al metro cubo) sono andati in fumo circa 100 miliardi di dollari.

Calcolando in media solo l’ 8% di legname pregiato, ne sarebbero andati persi 280 milioni di metri cubi ( 300 dollari al metro cubo), l’equivalente a 84 miliardi di dollari. Utilizzando solo la metà di questo legname pregiato per produrre al prezzo di mercato dei manufatturati ( 3.000 dollari al metro cubo) si sarebbero ricavati 420 miliardi di dollari.

Le previsioni di incendio di foresta amazzonica per il 1988 sono maggiori di quelle del 1987. Con la stessa tabella di calcolo dello scorso anno si avrebbe la perdita di 3,9 miliardi di metri cubi di legname, dei quali 312 milioni di legname pregiato, per un ammontare di 96,3 miliardi di dollari.

Con l’inondazione del lago di Tucuruì si è persa un’area inondata di circa 2.350 kmq con una perdita di foresta sommersa di 34 milioni di metri cubi di legname; una perdita cioè in legname pregiato di 414 milioni di dollari. L’ area di inondazione del lago di Balbina corrisponde a quella del lago di Tucuruì, quindi la perdita è più o meno la stessa. Ma c’è l’aggravante del fatto che la centrale idroelettrica di Balbina con molta probabilità non potrà funzionare.

Ecco, infine, alcuni fatti più recenti. Il giorno 24 Agosto 1988, lungo la strada BR-364 nello Stato di Rondonia, c’erano 1.096 punti di incendio, per un’area totale di fuoco dell’ordine di 1.025 kmq. Lo stesso giorno 24 Agosto 1988 il satellite NOOA-9 registrava nello Stato del Mato Grosso 1.031 punti di incendio, realizzando un totale di area continua di fuoco dell’ordine di 965 kmq. Sempre nello stesso giorno nello Stato del Parà c’erano 587 punti di fuoco.

In Amazzonia, negli ultimi cinque anni, sono andati distrutti 700.000 kmq.

Per quanto riguarda il Polo Siderurgico di Marabà (Sud dello Stato del Parà), nei primi dieci anni di funzionamento sarà necessario utilizzare 620.000 kmq di foresta per produrre il carbone vegetale necessario al funzionamento degli altiforni per ghisa. Già sono in funzionamento 15 fabbriche ed altre 15 sono in fase di costruzione.

Sappiamo che sono molte le ditte italiane ( Olivetti, Piaggio, Pirelli, Ferruzzi, ecc. ) che investono in Amazzonia. Puoi dirci qualcosa in proposito?

Abbiamo una lista del 1978/1979 e poi aggiornata al 1982, di varie società a capitale italiano misto a brasiliano. La difficoltà è poter dire se sia solo capitale italiano o ci sia una interferenza. Ma che ci siano interessi di italiani residenti in Brasile e di gruppi italiani dall’Italia sull’Amazzonia è innegabile. Il motivo di questi interessi è che oggi l’Amazzonia è il posto privilegiato di investimento. Un investimento con un ritorno altissimo e immediato, senza alcun rischio. Quindi sarebbe da stupidi non investire disponendo di danaro. Mi pare che l’Italia, economicamente, oggi se la stia passando abbastanza bene e quindi è normale che ci siano degli italiani che vedono questa possibilità e si lancino come avvoltoi sul cadavere che sta per morire e vogliano tirar via gli ultimi pezzi. Il caso più recente è quello della Benetton di poche settimane fa. Davanti al disastro ecologico che ormai impressiona anche il Brasile, incendi di foreste, di parchi forestali nella foresta amazzonica, questa ditta ha fatto richiesta di un bel po’ di terra, circa due milioni di ettari per fare un parco ecologico, per preservare la natura e per fare allevamento di bestiame: due cose in conflitto diretto. In Brasile si è cercato di mettere un veto perché sono un po’ tutti allarmati. Una società del tipo Benetton che ha soldi da investire, per non pagare le tasse che sconta da questo investimento, (se ha sede in Brasile) ha tutto l’interesse diventare proprietario di terra e fare progetti di sviluppo investendo i propri soldi che restano però suoi.

Quali sono i settori di maggior investimento?

I maggiori investimenti sono l’occupazione di terre, cioè la speculazione fondiaria e si legano principalmente al problema dell’allevamento del bestiame. Questi progetti normalmente vengono definiti progetti agro-pecuari che di “agro” non hanno niente, ma è tutto allevamento di bestiame, allevamento illegale, non permesso dalla legge nell’area amazzonica. Però anche se la legge c’è. Come spesso avviene, la si scavalca e si fa quello che si vuole soprattutto quando chi decide di agire in questo modo è legato intimamente con l’autorità, con il potere, con i governanti, con i militari e tutta questa banda di masnadieri che stanno praticamente distruggendo l’ultima riserva del mondo.

E’ solo questione di corruzione o c’è anche una legislazione che favorisce che le cose vadano in questo modo?

Corruzione con certezza. Corruzione impunita. La legislazione, se da una parte dovrebbe bloccare questo processo, dall’altra, aprendo spazi per investimenti che hanno in vista produzione, che hanno in vista l’esportazione per risolvere il problema del debito estero che poi è il problema finale, il problema di cui stiamo discutendo in questi giorni a Berlino, apre la possibilità non solo ad investimento che lede la propria legge, ma ne riceve dallo stesso governo, dallo stesso stato un finanziamento altissimo. Si tratta quindi di una contraddizione che ormai tutti conoscono, ma che persiste.

Per esempio: quest’anno la Sovrintendenza per lo Sviluppo dell’Amazzonia (SUDAM) ha approvato altri 47 progetti di agropecuaria ben sapendo che l’89% di questi progetti è fantasma, un buco nell’acqua, un disastro. Dichiarano che sono disastrosi e continuano a finanziarli. Quindi sotto ci deve essere molta pressione e molti interessi. Se corre molto danaro non c’è legge né autorità che valga soprattutto quando l’autorità è corrotta.

Chi sono a tuo parere gli alleati, gli amici degli Indios, e chi i loro nemici?

A questo punto si potrebbe dire che l’unico alleato sicuro è il buon Dio. Perché le altre entità, gli altri gruppi che hanno preso preso in mano la causa indigenista si trovano con le spalle al muro, ridotti al limite estremo, anche in termini di personale e con degli oppositori come quelli che stiamo tentando di denunciare, cioè il FMI e la Banca Mondiale. E’ come essere Davide contro il gigante Golia.

Però con una buona fionda e una buona pietra si può arrivare anche a quello di sconfiggere il gigante.

Ci sono comunque, in questi ultimi tempi, delle alleanza da parte di entità e da parte della stessa società civile.Ad esempio: alcune settimane fa abbiamo avuto, a Belèm, un dibattito pubblico sui grandi progetti energetici, dove la società civile di Belèm e dello Stato del Parà ( professionisti, ingegneri, professori universitari, studenti, la stessa popolazione) si sono dichiarati apertamente contro questo processo di distruzione e di invasione, e si sono dichiarati a favore dei Popoli Indigeni.

I Popoli Indigeni hanno riacquistato molta simpatia da parte della gente, anche i più diseredati che hanno capito che, dopo gli Indios, sarà la loro volta. Quindi, anche per un istinto di sopravvivenza hanno capito che la lotta degli Indios è la prima vittoria ( se si vincerà) che garantirà poi la vittoria della lotta di questi altri gruppi. Il lavoro che stiamo facendo noi come Chiese in Brasile, è facilitare le alleanze tra tutti quelli che sono massacrati da un sistema che non rispetta nessuno. Oggi è l’ Indio che è il più fragile. Domani saranno gli altri gruppi. Riunendo tutti costoro abbiamo una buona chance, una buona possibilità di bloccare perlomeno il processo e chissà di riuscire a riconquistare il terreno perduto.

Quali sono gli obiettivi dei movimenti indigenisti in Brasile? E, in Italia, cosa possono fare i gruppi ecologisti, i gruppi che si occupano di solidarietà coi Paesi del Terzo Mondo?

Distinguerei movimenti indigeni e movimenti indigenisti. Cosa vogliono gli Indios? Richieste fatte già da anni, per iscritto, nei convegni internazionali e anche qui a Berlino: innanzitutto che si blocchino i progetti in corso e si ridiscutano con loro, seduti allo stesso tavolo e parlando da pari a pari. Non si può andare avanti con progetti cosidetti di sviluppo che ormai si sono dimostrati altamente lesivi dell’integrità fisica, culturale, sociale di questi popoli e dell’ambiente. Chiedono quindi: fermate tutto e rivediamo quello che si può rivedere di comune accordo. Non stanno chiedendo la carità perché hanno fame. Stanno chiedendo giustizia perché hanno diritto a vivere, hanno diritto a fare il loro cammino, hanno diritto anche a decidere del loro futuro.

I movimenti indigenisti si sono messi sullo stesso cammino e stiamo dando tutto l’appoggio cercando di orientarli e di camminare con loro, prendendo con loro le batoste che vengono da tutte le parti perché gli Indios vengono incriminati se parlano in questo modo.

A questo proposito, è in corso un procveso, il Processo 07288, dove alcuni Indios sono stati incriminati in base alla legge degli stranieri ( una magnifica trovata giuridicamente!). C’è per loro il pericolo di essere espulsi dal Brasile dopo uno o due anni di prigione. Dove andranno?

Ad ogni modo siamo disposti a prenderci tutte le batoste che arrivano purchè la coscienza della Nazione e la coscienza dell’Umanità capiscano questo problema con chiarezza.

I movimenti indigenisti, non quelli che lavorano direttamente con gli Indios, i gruppi ecologisti, i simpatizzanti in Brasile e in Italia cosa possono fare?

Credo che ci sia la possibilità di lavorare in due direzioni. Una è la più facile: prendere coscienza e rendersi portavoce di quelli che non hanno voce, di quelli che non possono parlare. Quindi iniziative come queste qui a Berlino. Ma per me questa pare la strada più facile, ma potrebbe diventare anche folclorica, diventerebbe allora turismo ecologico. C’è però la seconda strada che, pur essendo più difficile, è del tutto essenziale. Cioè rivedere perché siamo arrivati a questo punto. Tutto sta a indicare che quello che ci ha portato qui è un tipo di società basata sul consumo e sullo spreco. Se siamo convinti che questa è stata la molla che ha spinto fino qui il processo, non possiamo limitarci a fermarla, ma dobbiamo recuperarla. Dobbiamo fare qualcosa per eliminare gli sprechi, i consumi che non sono necessari, rivedere il nostro tipo di vita, la nostra società, perché da questo dipende quello che succede in Paesi come il Brasile. E questo non perchè è un interesse anche nostro, ma anzitutto perché è un diritto di questi Paesi, degli Indios. Diventa però anche un interesse nostro perché distruggendo quelle aree, quelle foreste, noi avremo da lottare per sopravvivere nei pochi anni di vita che ci rimangono.

Si parla per il 1992 di un gesto di riparazione nei confronti della guerra che è stata la conquista di questi Popoli, conquista durata per cinque secoli. Cosa ne pensa?

Io direi anzitutto quello che pensano gli Indios che ne hanno già parlato in varie occasioni.

Per loro il 1992 è una data molto triste. Praticamente sono 500 anni che sono massacrati.

Se dal 1988 al 1992 facessimo un po’ di marcia indietro e dessimo loro un po’ di respiro, sarebbe certamente un’ottima cosa nei loro confronti e ce ne sarebbero non solo grati, ma riacquisterebbero un po’ di fiducia in noi perché la nostra credibilità nei loro confronti è zero. Buone parole se ne dicono tante, bei discorsi se ne fanno tanti, poi in pratica si continua come prima. C’è purtroppo molta retorica anche da parte della nostra società e da parte della stessa Chiesa che sta vedendo questo 1992 come il punto finale della Evangelizzazione dell’America Latina.

Non so fino a che punto si possa festeggiare il 1992 in clima trionfalista.

Gli Indios chiedono che venga dichiarata la data fatidica della scoperta dell’America giorno di solidarietà dell’Umanità con i Popoli Indigeni, una solidarietà che diventi concreta, che significhi accompagnare il loro cammino e soffrire con loro quello che ci sarà ancora da soffrire per poter arrivare a una giustizia, una fraternità, una convivenza che sia umana, cristiana e che possa permettere a tutti di vivere in pace.

Da parte mia come vedo il 1992? Sinceramente sono un po’ pessimista. Vedo che stiamo andando avanti solo su bei discorsi. Ancora non ho visto passi concreti per invertire l’ordine delle cose.

A Manaus in giugno un gruppo di italiani riuniti in un convegno ha lanciato lidea di acquistare un pezzo di foresta e donarla come gesto di riparazione agli Indios. E’ solo una bella battuta?

La battuta non è brutta, perchè ogni metro che ci si assicura è già una sicurezza in più. Però mi pare che sia ancora un palliativo, non una soluzione. Vogliamo semplicemente alleggerire le tasche. Per me è ancora poco, perchè quello che abbiamo portato via, anche se paghiamo molto, non possiamo restituirlo, è impagabile: cultura, tradizioni, sentimenti, il rapporto con la natura, con la Terra Madre.

Si dovrebbe evitare qualunque senso di paternalismo, di commiserazione. Gli Indios non vogliono essere commiserati. Gli Indios sono gente seria, gente orgogliosa. Tutto quello che chiedono è giustizia. Non chiedono la carità. E fargli carità donandogli un pezzo di terra che è già loro non so fino a che punto è carità.

Sarebbe meglio invece cambiare il sistema che porta tutta l’Umanità a questa situazione.

Se si potessero comprare quelli della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale e mettere loro sott’acqua invece che costruire dighe, questo sarebbe un bel gesto, per cui varrebbe la pena spendere soldi!